Collezioni fluttuanti per decolonizzare tassonomie

Da pochi giorni aperta e visibile fino all’8 gennaio The Floating Collection, presso il MamBo a Bologna.

E’ una collettiva che tramite lo sguardo di sei artiste e artistiAlex Ayed (Strasburgo, 1989), Rä di Martino (Roma, 1975), Cevdet Erek (Istanbul, 1974), David Jablonowski (Bochum, 1982), Miao Ying (Shanghai, 1985), Alexandra Pirici; ripropone in chiave nuova i patrimoni dei musei etnografici e atropologici della città.

A cura di Lorenzo Balbi e Caterina Molteni, trae ispirazione dal dibattito e dai processi di decolonizzazione avviati nei musei etnografici e antropologici di tutto il mondo che, dagli anni Novanta, si sono impegnati in una revisione della storia dei propri patrimoni, sperimentando nuovi approcci di indagine sulle collezioni e di mediazione con il pubblico.
Inscrivendosi in tale contesto, la mostra pone attenzione sui linguaggi delle arti visive proponendoli come strumenti in grado di rileggere le storie della città, riattivarle e re-immaginarle con gli occhi sgombri dalle strutture narrative e dagli approcci metodologici consueti.
All’impostazione enciclopedica e catalogatoria che caratterizza il modello museale occidentale e moderno, la “collezione fluttuante” si contrappone muovendosi sui confini delle discipline senza delineare regole o letture unitarie ma ponendo domande, offrendo immaginari e tenendosi aperta a continue oscillazioni e variazioni.

dal comunicato della mostra
A. Ayed, Untitled (Sun Drawing), 2022 
Alex Ayed ha riportato tre strisce per eliofanografo prelevate dal Museo della Specola riattivandole come opere: lo strumento di misura del raggio solare diventa la possibilità di osservare la luce, la bruciatura, la traccia del sole che resta impressa sospesa nel tempo e acquista una dimensione filosofico- esistenziale. 
A destra: A. Ayed, Untitled (Fossils and Shells), 2022

Tra le opere

emblematica quella di Alex Ayed. Il giovane artista francese che ha ideato un’esposizione basata sui temi della catalogazione e della misurazione. Attraverso l’esposizione decontestualizzata della Tavola del colore degli occhi di R. Martin e B. K. Schultz del 1930. Questo reperto rappresenta l’estremizzazione della voglia di catalogare dell’uomo che sfocia nel razzismo scientifico di primo Novecento.

L’artista sembra quindi provocarci verso una domanda: questi oggetti sono da nascondere, occultare, hanno una responsabilità etica se esposti al giorno d’oggi? oppure necessitano di un nuovo spazio neutrale che permetta di rimetterli in discussione e sondarli nella loro complessità?

ulteriori info sul sito del MamBo dal quale sono tratte anche le immagini

di PF redazionePiuVolume